Vicì! Quante persone ti stanno conoscendo e si commuovono davanti al tuo ritratto... Qualcuno scherza con il tuo viso e la tua pipa, altri frammentano l’immagine e ricompongono disordinatamente i suoi elementi, come succede con la memoria e l’esistenza, con il loro disordine. C’è pure chi ti racconta la sua pena, sognando che quella tua figura, grande e tranquilla, rassicurante, la possa accogliere e consolare: te la saresti mai immaginata tutta questa popolarità? Tu, un contadino che ad ottanta anni continuava ad andare a piedi in una campagna che non era più campagna, disseminata di edifici privi di storia. Che pensavi quando li vedevi crescere intorno alla tua piccola casa: ‘ntornu a turra,?
Se ti guardo, penso proprio che non ti preoccupassi più di tanto: l’avevi già capito che il mondo cambia e non si può sapere dove andrà a finire. Tu, per conto tuo, per restare intero, ripetevi i gesti di tuo padre e di tuo nonno, come hanno fatto anch’essi … prima di te. Nel vento di pensieri oscuri, che non sapevi dove ti avrebbero portato, se la tua memoria perdeva i colori, se tu ti perdevi, non prendevi tela e pennelli né ti mettevi a scrivere. Arretravi come avrebbe fatto un bambino, quando ha paura, e che potevi fare? Cercavi un proverbio e quello ti ricordava qual’era la giusta condotta, non è vero Vicì? Se sopraggiungeva un mal di testa, ricorrevi alla raziuna, quella formula misteriosa, a volte, allontanava veramente “u malucchiu”. Se ai tuoi perché non trovavi risposte, ti facevi coraggio passando lo sguardo sull’orto e le poche cose che avevi intorno.
Che sogni avevi da giovane? Non posso credere che aspettasi solo di terminare il lavoro e ritrovarti finalmente di fronte ai “maccaruni”, quella pasta preparata da tua madre con le mani e un bastoncino di ferro. A quei tempi, la pasta fatta si comprava in negozio solo nel periodo delle feste, per mangiare qualcosa di diverso. Il pane e il vino c’erano tutti i giorni: il pane si faceva due volte al mese, e quando diventava troppo duro si metteva nella minestra coi fagioli. “’U livatu” l’andavi a cercare da bambino, come anch’ io ho fatto qualche volta, in casa della vicina che aveva panificato per ultima. Quel po’ di amalgama residuo, inacidito, faceva crescere una montagna di impasto sotto le coperte, protetto dalle correnti. La coppetta sbeccata che conteneva il lievito passava di famiglia in famiglia: era così da cento, o chissà da quanti anni ancora.... Che profumo e che allegria quando dal forno uscivano le pitte e quelle forme di pane fresco.
Con tua moglie di che parlavi? Come la salutavi quando all’alba guardavi il cielo e prendevi la zappa? Quello che allora ti preoccupava era procurare il pane alla famiglia; d’altronde, capita così ancora oggi, a tante persone. Quante volte pensavi anche tu, come tutti, che, nonostante quello che era già passato, la tranquillità purtroppo ancora non arrivava: bisognava trovare la forza di arrivare a domani. E allora, la sera portavi fuori quella sedia e, rimanendo sotto il gelso, andavi e tornavi solo con la mente, osservando il fumo della tua pipa.
Adesso mi sembri sereno. Chissà? Forse hai conservato la semplicità senza preoccuparti del corpo che dovevi sentire invecchiare sempre più rapidamente. Solo la rassegnazione ti poteva essere d’aiuto per toglierti la paura di morire, che ogni tanto ti prendeva e doveva essere bello andare a letto con la tua donna, non appena faceva scuro. Quel piccolo giaciglio vi faceva sentire insieme, uniti, e meno poveri, mentre tutto intorno abbaiavano i cani, o, se era d’estate vi rassicurava il canto dei grilli. Certamente facevate progetti pure voi, e sognavate prima di dormire.
Vicí, di che parlavi con gli amici? Ora si parla e si parla, si fanno e si sanno tante cose, ma sono pochi quelli che riescono a stare seduti, come te, su una vecchia sedia, messa di traverso per appoggiare il braccio che tiene la pipa, e fumare fino a quando la minestra non era in tavola; allora prendevi la bottiglia del vino e, se era vuota, andavi alla botte, e sorridevi vedendo quel filo rosso che profumava scendendo lentamente dal beccuccio, formando una schiuma allegra.
Che lusso no, Vicí? Ad ottanta anni, poterti fumare una pipa senza aver lavorato tutta la giornata. Eri così quando ti ho trovato per caso e ti sei messo in posa. Poi, per non restare solo, hai chiamato Marisa, che giocava col suo gatto, perchè ti era venuto un pensiero strano, hai immaginato che ti avrebbe visto Jabi Machado, un pittore andaluso, e da quel momento avresti cominciato ad essere famoso, saresti andato a Siviglia ed a Venezia, addirittura ti avrebbero visto in una prigione dell’Alabama. Credo che tu l’abbia pensato, lo sapevi che non c’erano molti come te. Quando tu, già vecchio, continuavi ad andare in campagna, senza dimenticare il tuo cappello, per ritrovare quella sedia vicino all’albero e ricostruire la memoria del tuo mondo, gli altri stavano correndo per non andare da nessuna parte, per girare, girare e ritrovarsi stanchi e delusi, cercando di credere che non sia così. In quel periodo, la sera, ti vedevo tornare a piedi sul rettifilo. Attraversavi il ponte nel senso opposto al mio, che correvo per conoscere il mondo, pensavo. Forse tu hai immaginato che ti sarebbe piaciuto essere al mio posto? Forse. Io di certo ho desiderato di assomigliarti. Siamo così Vicì, in fondo una vita non ci basta. Per non essere soli, per essere un po’ più di quello che siamo, vorremmo vivere anche la vita di altri,è possibile: basta amare, è semplice no? Ma dimmi la verità Vicì, stai pensando: ma che dice questo, che vuole? Tu avevi chissà quali pensieri, seduto là, sotto il gelso, quando io ho caricato la macchina e...